L’infiammazione da cibo è una realtà ormai certa e la vera novità è che oggi è possibile misurarla e definirla (verificando i valori di BAFF e di PAF), andando quindi al di là della conoscenza di VES e PCR che da oltre 50 anni restano incredibilmente gli unici due “indicatori di infiammazione” usati dalla medicina.
La medicina moderna si confronta invece quotidianamente con fenomeni di infiammazione a bassa intensità che spesso durano a lungo nel tempo e che per anni sono stati scarsamente compresi.
Il sospetto che l’alimentazione potesse avere un ruolo importante in questa situazione è sempre stato molto forte, ma i ricercatori si sono spesso avvicinati in modo controverso al tema delle cosiddette intolleranze alimentari scontrandosi con pregiudizi, petizioni di principio e pratiche diagnostiche dubbie.
Il mondo scientifico si è quasi immobilizzato nella controversa ricerca di un tipo di anticorpo o di un altro, quando la realtà clinica e la ricerca hanno già consentito di capire che qualsiasi cibo può provocare in persone sensibilizzate la produzione di citochine e sostanze infiammatorie che provocano tutta la sequenza di sintomi, malattie e disturbi messi precedentemente in relazione con le cosiddette intolleranze alimentari.
La scoperta che un alimento può indurre la produzione di BAFF (B Cell Activating Factor) o di PAF (Platelet Activating Factor) e provocare tutti i sintomi infiammatoriche usualmente sono ascritti al cibo risale a qualche anno fa, ma solo da poco viene applicata seriamente in ambito clinico.
Eppure proprio i valori di BAFF (misurabili attraverso un test per la valutazione della infiammazione da cibo) consentono di capire il livello di infiammazionecorrelata al cibo eventualmente presente in una persona e di agire in conseguenza per aiutare a ridurre quella stessa infiammazione e a controllarne gli effetti sulla salute.
La recente definizione della “Gluten sensitivity” (una intolleranza al glutine che provoca gli stessi sintomi della celiachia senza esserla e che riguarda anche oltre il 20% della popolazione sana) ha gettato altre luci sui fenomeni infiammatori da cibo.
La reazione al glutine (spesso indistinguibile sul piano clinico da quella della celiachia) è dovuta solo alla attivazione delle reazioni infiammatorie difensive dell’organismo.
In termini scientifici si parla della attivazione dei Toll Like Receptors 2 (TLR2), recettori che svolgono nell’organismo la funzione di segnalare un pericolo (in quel caso il superamento di un livello di soglia dell’assunzione alimentare ripetuta) e manifestano la reazione infiammatoria come fosse una “luce di allarme” perché si cambi il comportamento alimentare.
Se poi l’avvertimento non è ascoltato, le conseguenze possono essere anche gravi.
Malattie immunologiche importanti come il Lupus Eritematoso Sistemico (LES) o l’Artrite reumatoide sono sicuramente in connessione con questo tipo di infiammazione, ma senza arrivare a queste condizioni limite il semplice fatto di ingrassare in modo non compreso (per effetto sulla resistenza insulinica) o soffrire di colite è certamente in relazione con questi aspetti infiammatori.
La frequenza di sindromi infiammatorie o autoimmuni dovute ad una reazione da lieviti e sostanze fermentate è in continuo aumento
Lo studio di queste condizioni passa oggi, in modo moderno e congruo con le ultime ricerche scientifiche, attraverso la definizione di una infiammazione da cibo, misurabile in entità, con la valutazione di BAFF e di PAF, dalla evidenza di esami ematici come il complemento (C3 e C4), del numero di Globuli Bianchi e del numero di eosinofili (che in questi casi spesso sono alti) e dalla definizione dei profili alimentari individuali.
Un obiettivo per la salute è quello di creare tolleranza immunologica, di recuperare la tolleranza quando questa è stata persa, di imparare a mangiare in modo vario e sano senza inutili restrizioni.
Grazie alle scoperte di Finkelman abbiamo capito che le Immunoglobuline G (IgG) nei confronti di un alimento possono essere semplicemente il segno di una precedente attivazione immunologica nei confronti di quel cibo (come quando da piccoli si è sofferto di una particolare reazione alimentare) oppure indicare, in accordo agli studi di Ligaarden l’eccessiva utilizzazione di un alimento o la sua assunzione ripetuta e sistematica in caso di quantità ridotte.
Quindi le stesse IgG verso gli alimenti devono essere valutate per quello che sono: un segnale dell’avvenuto contatto immunologico con l’alimento e una guida per impostare un approccio alimentare di riequilibrio verso quel gruppo alimentare o quell’alimento.
Usando le IgG come segnale di “avvenuto contatto” o come indicatori di un eccessivo utilizzo alimentare attuale, si può aiutare l’organismo a recuperare un controllo immunologico della risposta al cibo attraverso una pratica in tutto simile allo svezzamento infantile, ripercorrendo un percorso fisiologico di salute alimentare e immunologica.
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